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Macellazione rituale: come ti terrorizzo il consumatore

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Non si riesce a far passare una legge che vieti a ebrei e musulmani la macellazione rituale? Basta proporre un’etichetta minacciosa. Ma in Gran Bretagna ebrei e musulmani uniti hanno saputo giocare bene le loro carte.

Paolo Pozzi

Carne EtichettaLa deligittimazione della shechità in molti paesi Europei tenta anche di passare attraverso il tentativo di “informazione coatta”, nei confronti del consumatore, relativamente allo stordimento o meno dell’animale prima della macellazione. L’obiettivo è chiaro: buona parte delle macellazioni halal o kasher, per vari motivi, viene destinata al mercato non musulmano e non ebraico. Basti pensare, relativamente al kasher, ai quarti posteriori che non hanno passato la procedura del nikkùr dal nervo ischiatico (גיד הנשה – Bereshit 32, :25) o che sono risultati sì adatti al consumo umano da parte veterinaria ma, per vari motivi, classificati “non kasher”. O, in alternativa, alla produzione industriale di bovini, agnelli e capretti halal in Gran Bretagna, destinati prevalentemente all’esportazione nei paesi islamici, di cui una parte in ogni caso rimane sul mercato interno e indifferenziato.

Un’eventuale etichettatura relativamente al “mancato stordimento” dovrebbe indurre nel consumatore, attento lettore di etichette al supermercato (?!?), un sentimento di repulsione e quindi di rifiuto all’acquisto, con conseguente pressione economica sul venditore di carne che, a sua volta, arriverebbe a preferire carne da “animale stordito” ed a rifiutare – penalizzando commercialmente – il kasher-halal.

Alle grida convinte di “informazione senza se e senza ma” si è aggiunto anche il grido di ”vogliamo sapere tutto!” , grido levato niente popodimeno che da Rav H. Grunwald (Supervisore Generale della kashrùt in Grand Bretagna) e Dr. S. Shafi (Segretario Generale del Consiglio Islamico in Gran Bretagna).

In una lettera al Telegraph (8 Maggio 2014), Grunwald e Shafi (http://www.telegraph.co.uk/comment/letters/10814564/All-meat-should-be-labelled-with-details-of-its-slaughter.html) hanno invocato il diritto a “sapere tutto”: “se un animale sia stato stordito meccanicamente prima della macellazione, e se ha avuto bisogno di stordimenti ripetuti nel caso il primo fosse inefficace” (secondo stime generali e dati pubblicati, ma in modo non sistematico ed omogeneo, tra il 5% ed il 15% degli animali ha bisogno di stordimenti ripetuti prima della macellazione. Nda).

E sempre nell’ottica di un’informazione “completa”, il diritto di conoscere, in etichetta, il metodo di stordimento usato: sparo di proiettile captivo (ovvero un perno metallico che penetra nel cervello dell’animale), gassazione (avete letto bene! “gassazione” ovvero introduzione degli animali in un “tunnel a gas” o in una “camera a gas”), stordimento elettrico (ovvero applicazione di elettrodi alla testa e passaggio di corrente elettrica), appendimento per i piedi e immersione della testa in acqua elettrificata (polli), “botta sulla testa” (con pistole pneumatiche che percuotono la testa con un “tampone”, provocando un danno cerebrale da trauma cranico), “dislocazione del collo” nei polli (il classico “tirare il collo alla gallina”).

Insomma una vera e propria galleria degli orrori che, secondo la provocatoria ma legittima richiesta di Grunwald e Shafi, “offrirebbe ad ogni consumatore una scelta genuina, sia questa motivata da benessere animale, osservanza religiosa, o persino intolleranza di qualsiasi persona che pensi o creda diversamente”.

Da veterinario, conoscitore di queste problematiche e della gente – la più varia – che in questo ambiente lavora, avrei forse anche richiesto di sapere qualche dato su conoscenze e competenze professionali di chi lavora in questo settore, sicuramente non tra in più ambiti nel mondo del lavoro.

Nell’ambito del mio lavoro ho assistito ad un corso sul benessere animale in corso di macellazione rituale (senza stordimento) tenuta da colleghi australiani. Questi hanno portato documentazione ed esempi dalla realtà locale. Le foto “parlavano” da sole: mentre lo shochèt rimane lo shochèt (ovvero una persona che, relativamente alla shechità, ha studiato, è stato esaminato ed è testato periodicamente dalla “sua” autorità (Bet Din locale e/o Rabbanut israeliana), dalle autorità sanitarie del Paese in cui esercita, ed è consapevole del suo lavoro, il “macellatore”, “rituale” o meno, rimaneva il lavoratore non qualificato di turno: l’immigrato o l’ avventizio in attesa di qualcosa di meglio (sia meglio pagato che meno brutto) e di un futuro migliore.

Forse, d’accordo con Grunwald e Shafi, anche io vorrei leggere sull’etichetta “macellato da un macellatore professionista con X anni di esperienza; la macellazione non è stata preceduta da alcun trauma fisico ed è stata eseguita in modo da causare l’incoscienza pressoché istantanea dell’animale”.

Interessante citare qualche commento, sul Telegraph stesso a questa proposta di Grunwald e Shafi: una “donna dello Yorkshire” scrive chiaramente che “non vuole mangiare halal perché non vuole incoraggiare ulteriormente l’Islam in UK e che… sia personalmente che ufficialmente preferisce la Cristianità come religione in UK”.

Ma, anche, una autodefinitasi “donna bianca, Cristiana, inglese e fiera di esserlo” scrive che “se si tratta di dire una preghiera (per l’uccisione dell’animale) e un lavoro pulito fatto da una persona esperta, allora lo preferirebbe.”

Qualcuno afferma che “halal è diventato lo standard in UK in modo da non offendere i musulmani, ma bisognerebbe considerare che offende tutti gli altri” e qualcun’altro che “non ci dovrebbero essere eccezioni alcune per le macellazioni”.

Di fatto una scarsa conoscenza in merito alle macellazioni ed alle normative sia EU che nazionali, rivela come le “eccezioni e le esclusioni” agli stordimenti siano notevoli e diffuse: dagli “allevamenti rurali di polli e conigli” (massimo 250 capi per volta; calcolando che un pollo cresce in circa due mesi, credo che -conigli esclusi – un paio di “allevatori rurali” possano soddisfare l’intero fabbisogno della comunità di Milano, e forse più); alla caccia (art.14 della Direttiva 1099 del 2009); alle “tradizioni culturali e riti religiosi” (art.15) (per cui non si capisce come mai le macellazioni rituali non ricadono sotto questo articolo !) piuttosto che le diffusissime macellazioni casalinghe di maiali e di piccolo ruminanti, ancora presenti in gran parte dell’Europa dell’Est, anche comunitaria.

C’è una conclusione logica in tutto ciò? Non è chiaro! Ho la sensazione che “un lavoro pulito, rapido e non traumatico” (come descritto dalla “fiera Cristiana inglese”) potrebbe essere definitivamente meglio apprezzato e meglio capito. Forse sta a noi evidenziare gli aspetti positivi della shechità, anche comunque considerando che frange intolleranti sempre rimarrano.

Accusare di “doppio standard” rinfacciando caccia, corride e macellazioni rituali ? non credo servirebbe: ci verrebbero portati esempi tendenti a minimizzarne gli effetti e l’impatto.

Forse la trasparenza su impatto minimo e controllabilità potrebbero essere argomenti che, abbinati alla professionalità ed alla “esecuzione rapida e pulita” contribuirebbero un un riequilibrio della situazione, ad una effettiva conoscenza della shechità.

Quanto sopra senza nulla togliere al diritto in se di una minoranza religiosa all’espressione del suo credo quando questo – sia pure in modo inconsueto – prende in considerazione e di fatto ottempera al rispetto di valori generalizzati e comuni.


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